Praevalebunt, praevalebunt…

L’Osservatore Romano, con la consueta carità dei seguaci di Paolo e Pietro, sputa sulla salma ancora calda di José Saramago. Gongola alla notizia della morte di un avversario dichiarato: non si tiene più nella pelle nel momento di poter finalmente cagare sul cadavere del nemico, secondo un comportamento coatto-rituale che si riverbera d’altronde nelle liturgie cannibaliche del cristianesimo.

Vengono sfoderati per l’occasione toni e concetti come quelli che risonavano ai tempi belli del Sant’Uffizio contro ogni “haereticam pravitatem”, giusto per far intendere che L’Osservatore Romano non vuole mascherarsi dietro banali ipocrisie e buonismi, ma piuttosto ingollare e gustarsi sino all’ultima goccia questo calice di ambrosia costituito dalla morte di uno scrittore acuto e illuminato.

José Saramago sarebbe stato “un uomo e un intellettuale di nessuna ammissione metafisica, fino all’ultimo inchiodato in una sua pervicace fiducia nel materialismo storico, alias marxismo”; avrebbe scelto “lucidamente” di autocollocarsi “dalla parte della zizzania nell’evangelico campo di grano”.

Santa Minchia, com’è evangelico!

Provoca accoramento nell’Osservatore Romano che lo scrittore si dichiarasse “insonne al solo pensiero delle crociate, o dell’inquisizione, dimenticando il ricordo dei gulag, delle ‘purghe’, dei genocidi, dei samizdat culturali e religiosi”.

Con la solita gara per cui “il mio genocidio  ce l’ha più lungo del tuo”, L’Osservatore Romano non manca di sottolineare come gli uccisi in nome di dio padre figlio spirito santo siano meno uccisi, oltre che meno numerosi, degli uccisi in nome dell’uguaglianza tra gli uomini. E non si capisce, peraltro, nelle farneticazioni vaticane, perché il privato cittadino signor José Saramago, scrittore di lingua portoghese cioè di una nazione da cui la teocrazia cristiana ha disseminato i suoi disastri nel mondo intero, dovrebbe farsi carico delle colpe dello stalinismo più di quanto l’istituzione millenaria della Santa Romana Chiesa Catt.Ap. non si sia fatta carico delle stragi e dei massacri fondati su essa fede cristiana.

Non può non intervenire, beninteso, lo spostamento abusivo e gesuitico del discorso di Saramago dall’immanenza alla metafisica, dalla letteratura alla teologia, laddove Saramago nei suoi romanzi parla proprio e solo di costruzioni umane, istituzioni storico-sociali, prodotti dell’immaginario ed elaborazioni dell’umana superstizione:

“Un populista estremistico come lui, che si era fatto carico del perché del male nel mondo, avrebbe dovuto anzitutto investire del problema tutte le storte strutture umane, da storico-politiche a socio-economiche, invece di saltare al per altro aborrito piano metafisico e incolpare, fin troppo comodamente e a parte ogni altra considerazione, un Dio in cui non aveva mai creduto, per via della Sua onnipotenza, della Sua onniscienza, della Sua onniveggenza”.

Che il teologo parli di logica, inoltre, è assolutamente fuori luogo, anzi costituisce un affronto al buon gusto e alla decenza intellettuale, tanto più se oggetto del contendere non è o non dovrebbe essere un sistema filosofico-ideologico bensì l’opera creativa di uno scrittore (col che naturalmente non si vuol dire che l’opera di uno scrittore debba sottrarsi a ogni coerenza logica, anzi):

“Irriverenza a parte, la sterilità logica, prima che teologica, di tali assunti narrativi, non produce la perseguita decostruzione ontologica, ma si ritorce in una faziosità dialettica di tale evidenza da vietargli ogni credibile scopo”.

Non praevalebunt?

Praevalebunt, praevalebunt.

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